Questa è la storia di Venanzio Gibillini, un deportato che ho conosciuto a scuola.
Per prima cosa spieghiamo che cos’era la Shoah: era un’insensata discriminazione verso gli ebrei, perché erano “più ricchi ed intelligenti”, ma considerati una razza inferiore a quella ariana come anche gli omosessuali e altre minoranze . Le leggi razziali erano una violazione dei diritti umani ,una privazione di libertà e della propria vita per tutte queste persone. Venanzio Gibillini prestò servizio come militare, ma il 4 luglio 1944, a 19 anni,venne arrestato a Milano dai fascisti che facevano parte dell’Upi, perché non aveva aderito alla repubblica sociale italiana.
Quindi, quel giorno stesso, fu portato e segregato nella cella numero 62 nel carcere S. Vittore di Milano.
Una notte vide dei soldati prendere il signore della cella davanti alla sua e portarlo via insieme ad altri 14 carcerati; i soldati dissero che li avrebbero portati a fare un giro, invece vennero portati a Greco Pirelli, dove furono fucilati quella stessa notte.
Venanzio rimase lì fino al 17 di agosto del 1944, dopo di che venne fatto salire su un pullman e portato al campo di concentramento di Bolzano, dove venne inserito nel blocco B .
Il suo numero di matricola era il 3111 .
Rimase là fino al 7 settembre 1944 per poi trascorrere 2 giorni infernali, senza nemmeno lo spazio vitale, su un vagone ferroviario da bestiame con altri deportati,verso un’ignota destinazione .
Prima passarono da Norimberga per poi arrivare a Flossenburg il 9 settembre 1944; marciarono per 2km, dopo di che vennero sottoposti alla spoliazione, alla depilazione, alla rasatura dei capelli, alla disinfezione e alla doccia con i getti sia di acqua calda che fredda; una volta usciti da lì, un soldato faceva loro un segno sulla fronte e davano loro dei vestiti riciclati dalla guerra, sui quali veniva loro cucito sia il numero di matricola che il triangolo che rappresenta il loro stato di detenzione .
Il suo numero di matricola era il 21626 e il triangolo era rosso .
Il giallo era per gli ebrei, il rosso per i detenuti per motivi politici, il verde per i criminali e i viola per gli omosessuali .
Rimase lì fino a fine ottobre del 1944 per poi venire trasferito a Kolte, dove i nazisti lo obbligarono a costruire i pezzi per gli aeroplani. Lì il suo numero era l’116361.
Alcuni tedeschi che lavoravano in quella fabbrica gli offrivano qualcosa da mangiare e un giorno chiese al ragazzo che gli offriva sempre la birra, se poteva avere anche un pezzo del suo panino, ma lui gli rispose :”Warum gefangen” ovvero “Perché deportato “.
Poi una sera un suo compagno gli disse :”Resisti fino alla primavera”, perché in primavera sarebbe finita la guerra, e lui gli chiese che giorno fosse: era il 28 novembre 1944, il giorno in cui compiva 20 anni .
Scappò da Kotte e per la strada chiedeva da mangiare e alcune signore gli lanciavano il pane dalle finestre.
Arrivò in Italia quasi a fine maggio 1945 , ma un giorno tanti anni dopo ritornò a Flossenburg per ricordare i suoi compagni che non ce l’avevano fatta ed erano morti per le privazioni dei diritti e della propria vita .
Giba descrive i lager come una cosa che non si può dimenticare .
Ci ha lasciato questa frase :
“ La libertà è una cosa da
conservare, perché senza
libertà non si può vivere “
Carolina Villa 3A