Un intenso racconto di un’alunna di 1B che, in seguito a un percorso affrontato in classe con l’insegnante di italiano prof.ssa Brambilla in occasione della Giornata della memoria, si è immedesimata in un coetaneo ebreo degli anni della guerra deportato in un campo di concentramento…
Era un giorno come gli altri, credevo, ma mi sbagliavo. Mi chiamavo Marco, avevo 11 anni e vivevo in un
paesino sul confine con la Polonia. Ero un ragazzo ebreo e io e la mia famiglia sperammo fino alla fine che
non ci deportassero nei campi di concentramento. Avevo una sorella gemella, a cui ero molto affezionato e penso sia stata la persona più importante della mia vita. Durante la mia infanzia, I miei genitori furono molto premurosi e fecero di tutto per proteggerci.
Quella mattina mi svegliai di buon umore, scesi dal letto e andai in cucina per salutare la mia famiglia, ma non c’era nessuno. La casa era completamente deserta. “Forse erano andati a fare una passeggiata” pensai.
Ma quando aprii la porta feci un balzo di terrore: vidi mia sorella che piangendo e urlando veniva buttata bruscamente in un carro malconcio da due signori in divisa verde e presto feci la stessa fine. Vidi la porta del carro sbattere e venni ingoiato nell’oscurità. Buio. Solo buio. Sgranai gli occhi e vidi qualcosa muoversi.
Frugai freneticamente nelle tasche del pigiama e vi trovai una scatola d fiammiferi. Ne accesi tre contemporaneamente. Quando mi girai, il mio volto si contorse in una smorfia d’orrore perché vidi una quarantina di visi pallidi che mi fissavano. Chi piangeva, chi gridava, chi pregava e…ecco mia sorella! Mi precipitai verso di lei abbracciandola. Ricambiò il mio abbraccio con una dolce carezza. Ad un tratto il carro si fermò, la porta si spalancò e poco a poco la gente scese. Quando scesi anch’io mi trovai davanti un cancello con un’insegna scolorita, che precedeva un bel campo fiorito e una meravigliosa betulla. Ci fecero camminare in fila al di là dell’ingresso. Uno di fianco all’altro perfettamente allineati aspettammo pazienti che ci chiamassero per nome e cognome. “Marco Ganci!”. Un brivido gelido mi corse lungo la schiena.
Venni trasportato in una stanzetta dove c’era un signore ad aspettarmi. Era un tatuatore. Dopo mezz’ora mi ritrovai un numero a quattro cifre sull’avambraccio. Poi mi portarono insieme a un centinaio di persone svestite in un campo. Là ci fecero indossare una goffa divisa piena di strisce bianche e azzurre, con una stella di David sul petto. Mia sorella stava sempre al mio fianco; eravamo perfino nella stessa cuccetta e,ogni notte, pensavamo ai nostri genitori. Un giorno alle 5.40 ci svegliammo e, come sempre, andammo a fare l’appello in un grande piazzale, per poi tornare scalzi nei campi a zappare. Eravamo ormai da due ore nel campo quando sentii gridare: “3745!”. Mi sentii gelare il sangue…era il numero di mia sorella, che con le lacrime agli occhi si guardò l’avambraccio e disperata mi salutò e corse via. Da quel momento pregai, pregai che non venisse uccisa, ma le mie preghiere a quanto pare non bastarono. Vidi il corpo morto di mia sorella
gettato nel forno crematorio. Avrei voluto gridare, sbraitare e calciare, ma i miei deboli sentimenti mi
portarono solo ad un pianto malinconico. Senza di lei la mia vita non aveva un senso, io non avevo un senso! Non riuscii a camminare, ma corsi, corsi fino ad avere il mal di gambe. Il mio cervello non sapeva dove andava, ma il mio cuore sì. Senza esitare con un balzo felino andai a schiantarmi contro il filo spinato elettrico che circondava Auschwitz. Dopo aver fatto ciò potei finalmente rivedere mia sorella.
Giulia Cherchi 1^B