“LA MIA TESTIMONIANZA E’ UNA PREZIOSA FONTE STORICA SUL FUNZIONAMENTO DEI
LAGER E, INSIEME, UNA RIFLESSIONE SULLA DISTRUZIONE PSICOLOGICA DELL’UOMO”
(Primo Levi)
Primo Levi ha vissuto sulla sua pelle l’esperienza traumatizzante dei lager nazisti e la sua testimonianza, contenuta nel suo libro, è un elemento importante per ricordare quell’avvenimento. Fare memoria, ricordare e anche, quando è possibile, testimoniare serve alle nuove generazione per non dimenticare e per non ripetere gli errori del passato. L’uomo, con il tempo, deve imparare dai suoi errori, accorgersi di aver sbagliato e non commettere più lo stesso sbaglio. Le testimonianze che abbiamo vanno conservate per chi verrà dopo di noi in modo che tutti possano conoscere quello che è successo. Primo Levi in “Se questo è un uomo” parla di distruzione psicologica dell’individuo o della persona. Significa che, nei lager, veniva tolto, a chi era rinchiuso, tutto: il nome, l’identità, la dignità, la libertà e la vita. I nazisti applicavano questi procedimenti per far sì che una persona perdesse tutto quello che aveva e tutto quello che era. Nei campi di concentramento si strappa via l’identità sostituendo ai prigionieri il nome con un numero; le persone venivano trasformate e trattate come oggetti senza nessun valore e questo, secondo me, succede quando non si vede più l’altro come persona uguale a te, bensì come semplice individuo inferiore a te. Anche se non sono molto conosciute esistono e sono esistite altre situazioni di discriminazione razziale seguita dalla segregazione e dallo sterminio di un popolo. Ricordare serve affinché nessuno possa mai più ripetere gli orrori dei lager, dei gulag, delle foibe e di tante altre realtà che sono state la causa della morte di migliaia di persone innocenti. Io, con i miei compagni di classe e altri ragazzi, ho avuto la possibilità di sentire parlare dal vivo chi ha vissuto questa esperienza e mi sento
carico di responsabilità: ricordare e diffondere la testimonianza che conosco perché tutti possano sentirne e riceverne il messaggio.
Alessandro Panzeri 3^D
21 Febbraio 2018
Cara Francy,
Come stai? Io tutto bene. Ti scrivo questa lettera perché ti volevo raccontare di un’esperienza che ho vissuto mercoledì scorso. Poco tempo fa infatti, c’è stata la giornata mondiale della Shoah e la nostra scuola ha avuto l’onore di ricevere la visita di Venanzio Gibillini, Giba per gli amici. Giba è un signore sopravvissuto ai lager e ai campi di concentramento nazisti del 1945. Dico che “abbiamo avuto l’onore” perché per me è stato veramente così, perché ho sempre sentito questo fenomeno troppo lontano da me. Grazie a Giba invece ho capito che quella realtà non è poi così lontana da noi e che le vittime della Shoah, erano innanzitutto uomini, donne e bambini, cioè persone che dovevano avere i propri diritti, non semplici numeri. Giba, insieme a suo figlio, è stato molto bravo a raccontarci la sua storia e, anche se so che per lui è stata una tragedia, lo ha fatto in modo simpatico e tranquillo. Secondo me ha fatto così perché il dolore che gli rimarrà sempre dentro, lo ha fatto diventare più forte. Dopo essere stato liberato, ha preferito emarginare dentro di sé quel dolore, per ricordare, ma non rivivere. Giba è stato arrestato a Milano il 4 Luglio 1944 e ha assistito alla fucilazione di 15 suoi compagni in Pizzale Loreto. Fino al 5 Settembre è stato internato in un blocco a Bolzano, dove è stato picchiato e costretto a fumare. Qui Giba perse una delle poche dignità che gli erano rimaste: il nome.
Da quel momento sarebbe stato solo un comune numero, il 3111.
Dal 5 al 7 Settembre però, è stato il periodo peggiore. Giba, e altre 50 o 60 persone, è stato portato su un treno diretto a un’ignota destinazione, che avrebbe determinato una grande svolta del suo destino. Per quei due giorni, le persone avevano pochissimo cibo e sono dovute sopravvivere alle condizioni disastrose della carrozza del treno. Giba ci ha raccontato che c’erano uomini, donne e bambini tutti ammassati, non c’erano i bagni e se sfortunatamente uno si ammalava poteva contagiare tutti. Quei 2 giorni gli hanno causato un forte dolore e, anche se non conosceva quasi nessuno delle persone che viaggiavano con lui, secondo me si è sentito molto vicino a ciascuno di loro, perché provavano tutti la stessa paura e lo stesso dolore. Giba, che aveva solo 17 anni, era arrivato a destinazione: Flossemburg.
Arrivato nelle baracche del campo di concentramento, è stato costretto a spogliarsi e fare la doccia in pubblico, insieme a tanti altri uomini come lui. Ci ha detto che per fare la doccia erano tutti ammassati uno sopra l’altro e quindi era difficile lavarsi completamente. Nelle camerate invece ha ricevuto dei vestiti riciclati ed è stato costretto a rasarsi e ricevere un segno di riconoscimento sulla fronte e sul braccio.
Da ora in poi verrà chiamato solo 21626.
Venne trasferito a Cotter, nel campo di concentramento a Dachau. Ogni giorno era una sfida contro il destino: era costretto a fare i lavori più umili e successivamente a lavorare in fabbrica. Per pranzo non aveva più tutto ciò che desiderava, come accadeva poco tempo prima, ma solo pane secco e marmellata. Il suo viaggio però stava per finire. Dopo circa un mese venne trasferito a Fronte. Il 28 Novembre accadde però una cosa che Giba non dimenticherà mai. Un suo amico gli stava raccontando la sua storia e casualmente disse la data di quel giorno: era il compleanno di Giba. Nel raccontarci questo momento così importante, il volto di Giba si illuminò e io penso che per la prima volta nel suo viaggio, era stato felice. A maggio 1945 tutto ciò finì: era tornato a casa. Poteva finalmente riabbracciare la sua famiglia, mangiare qualcosa di buono, lavarsi ogni giorno e soprattutto riprendersi i propri diritti. Quando la guerra finì e anche l’ultimo campo di concentramento venne liberato, Giba decise di tornare a Flossemburg, per dare l’addio ai suoi amici che erano morti nei lager. Giba ci ha portato il cucchiaio che si era fabbricato per riuscire a mangiare le briciole del pane che gli cadevano sulle ginocchia. Per riconoscerlo però ha deciso di inciderci sopra una parola: non era il suo nome, non era quello del suo migliore amico, né quello del paese in cui era nato.
Era la scritta “mamma”.
Mi ha emozionato tantissimo questa cosa perché vuol dire che era ciò che gli mancava di più e in qualche modo voleva portarla sempre con sé. Ti ho voluto raccontare quest’esperienza perché a me ha interessato molto e ricordare dei brutti avvenimenti passati aiuta a non volerli più rivivere o causare. In quei campi però, non venivano uccise solo migliaia di persone, ma tutte le dignità e i doveri dell’uomo. Non venivano più chiamati con il loro nome e dovevano obbedire agli ordini anche se non riuscivano a capirli a causa della lingua. Inoltre potevano essere fucilati da un momento all’altro della giornata e, soprattutto, dovevano essere considerati inferiori e sottomittibili anche se non lo erano. La sofferenza, il dolore, le tragedie che le persone provavano in quei momenti, non devono assolutamente più esistere. Le famiglie venivano divise e non si sarebbero più riviste, alcuni morivano anche se non avevano fatto niente e altri erano sottoposti a lavori estremi o a torture inimmaginabili. Quei campi di concentramento lasceranno per sempre un segno indelebile nella storia del mondo. I fascisti non consideravano più quelle persone come uomini, ma in realtà erano loro quelli che non erano uomini, ma solo degli assassini sterminatori, che si sentivano superiori e ignoravano i diritti, le dignità e i valori dell’uomo.
Alice Giussani 3^ C