DUE INTENSI RACCONTI DEI RAGAZZI DI PRIMA CHE SI SONO MESSI NEI PANNI DI ALCUNI COETANEI SFORTUNATI, COSTRETTI A LASCIARE LA LORO VITA E A RECARSI IN UN PAESE STRANIERO A CAUSA DELLA GUERRA…

Sono un bambino originario della Repubblica Centroafricana. Ho solo 11 anni. Nella mia terra vivevo senza genitori e non sapevo per quanto sarei riuscito ancora; il mio paese era stato segnato profondamente prima dalla guerra civile e poi dalla povertà assoluta. La mia casa era stata distrutta da una mina: vivevo con la mia sorellina di quattro anni in una baracca. I miei genitori erano già in Europa e noi volevamo raggiungerli: per questo lavoravo 10 ore al giorno da un benestante della capitale, cercando di racimolare qualche soldo. La città, però, distava dal nostro paese circa 20 km; ogni giorno andavo e tornavo a piedi; lavoravo anche alla domenica, ma ne era valsa la pena, perché finalmente ero riuscito a guadagnare più soldi del previsto, dato che avevo sentito dire che gli scafisti raddoppiavano il prezzo del biglietto al momento di salpare. Il giorno stabilito ci preparammo e partimmo in direzione Libia. Eravamo in 50 circa, ma non so dirlo di preciso, perché non ho mai imparato a contare. Nel deserto “morivamo di caldo” e mancava l’acqua. Trovammo carovane di mercanti, che però non accettarono di portarci con loro; almeno per una cosa fummo fortunati: nessuna tempesta di sabbia. Finalmente, dopo più di due mesi di cammino,  arrivammo in Libia. Riuscimmo a superare i controlli e a raggiungere i barconi. Pagammo la somma per il biglietto (che ovviamente era aumentata), ma poco prima di partire ci  fermarono e portarono in una prigione. Vivevamo in terra, tutti ammassati; mancava l’aria. C’erano persone di tutte le età: bambini come noi, con genitori o senza, ragazzi sui vent’anni, donne incinte e anziani. Un giorno  riuscimmo a passare in uno dei buchi delle reti.  Raggiungemmo il barcone. Eravamo molti di più, circa 300. Non ci stavamo tutti. Saremmo potuti cadere in acqua e per questo molti venivano ammassati nella stiva. Stavamo partendo. Il mare non era molto mosso, ma comunque ci faceva paura: io e mia sorella non eravamo mai saliti su una barca o una nave. Nei giorni successivi ci furono forti raffiche di vento, che  alzarono le onde e danneggiarono la barca. Si  faticava  a stare in piedi; se si cadeva, si veniva schiacciati dalla “massa umana” che cercava di salvarsi. Ad un certo punto sentimmo un rumore: un’altra nave, ma più grossa. L’uomo al timone spense il motore; restammo tutti muti e immobili. Poteva essere una nave italiana, che ci avrebbe salvato, ma non ci sembrava  di aver navigato molto per raggiungere l’Italia, oppure una nave libica, che ci avrebbe riportato al punto di partenza. Qualcuno la intravide e disse di aver notato la bandiera della Libia; l’avevo vista anch’io: era davvero libica. Fortunatamente non ci avvistò. Ripartimmo subito in direzione Italia. Ad un certo punto sentimmo un altro rumore: rimanemmo ancora immobili e muti. Questa volta però la nave era italiana. Tutti si spinsero per salvarsi per primi e si spostarono nella stessa direzione. Il barcone s’inclinò paurosamente e si rovesciò. Eravamo tutti in acqua. Un volontario italiano ci lanciò salvagenti. Alcuni lottavano per prenderli. Alla fine fummo portati tutti sulla nave e dopo circa 5 ore di navigazione arrivammo a Lampedusa. Fummo accompagnati in un centro di accoglienza. Almeno lì ci diedero da mangiare. Mia sorella mi chiese dove fossero mamma e papà; io le risposi che non lo sapevo. Fortunatamente un giorno arrivò un pullman rosso con la scritta bianca “Emergency”; ci dissero che erano lì per curarci. C’erano medici molto gentili che ci visitavano, ma anche dentisti. Ci chiesero dove fossero i nostri genitori e noi rispondemmo che non lo sapevamo, ma loro ci dissero che ci avrebbero potuto aiutare a  rintracciarli. Ci accompagnarono in un paesino vicino a Roma e lì ritrovammo i nostri genitori ! Eravamo tutti felicissimi  ! Mamma e papà ci spiegarono che erano diventati volontari di Emergency e che facevano da “traduttore umano” per capire i problemi delle persone migranti e riferirli ai medici. Anche io, da grande, voglio fare lo stesso lavoro, per aiutare persone che come noi sono in difficoltà e scappano da povertà e guerre !

Un alunno di 1^B

 

“Mi rialzai,scostandomi di dosso le macerie, c’era appena stato un bombardamento aereo e io continuavo a sentire un continuo “beep”.

Mentre mi guardavo intorno vedevo solamente dolore e disperazione”. Mi fermai cercando di trattenere le lacrime.

La signora mi disse: “Continua, ti renderà più facile superare il trauma”.

Io feci un respiro profondo e proseguii: “Cercai mia sorella finché non la trovai,anche se… morta.

Iniziai a piangere e a gridare sul suo corpo inanimato,i nostri genitori erano morti anni prima ed era lei a prendersi cura di me.

Mi feci coraggio e iniziai a dirigermi a casa di alcuni amici di famiglia, loro mi accolsero e mi fecero da mangiare”. Bevvi un sorso d’acqua.

Ella mi chiese: “Come  sei venuta ha sapere della nave degli spagnoli?”

Io le risposi: “Loro mi hanno detto che dovevo farmi una nuova vita al di fuori della Libia, e mi hanno anche detto che in quel periodo era più facile emigrare.

Mi dissero anche che avrebbero preparato tutto il necessario per il lungo viaggio”.

“Quanto durò?”

“3 o 4 mesi, non ne ho tenuto precisamente il conto, ma per attraversare  paesi interi a piedi o in pullman non ci vuole poco.

Giunta sulle coste dell’Africa Settentrionale è arrivata la nave che mi ha portata qui in Spagna”

La donna mi disse: “Come ti senti adesso?”

Io le dissi: “Devo ammettere che mi  sento meglio. Anche se provo ancora dolore per la perdita di mia sorella”

La donna mi disse: “Qui inizierai una  nuova vita”.

Io annui.

Lei aggiunse: “Tranquilla,tua sorella è ancora con te. È solo che adesso non la puoi vedere con gli occhi ma soltanto con il cuore”.

L’abbracciai e le dissi: “Grazie,per avermi questa possibilità”.

La signora mi rispose: “Tutti in casi come questi se la meriterebbero”.

 

Shafaha Kokotina Chabi 1D

 

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