La sposa cadavere, Edward mani di forbici, Nightmare before Christmas e molti altri, tutti film del famoso regista Tim Burton. Che fa sognare gli spettatori con il suo stile gotico e a volte un po’ macabro e che ispira giovani scrittori a creare nuove storie da brividi. Proverò con il mio racconto in questo articolo a far passare sensazioni simili e spero di riuscire nel mio intento, buona lettura!

Zingara, è così che l’apostrofavano gli altri bambini a scuola, non che gliene importasse qualcosa, tanto avrebbe cambiato compagni dopo un mese o due. Catherine passava ogni anno così, e non se ne lamentava, soffriva in silenzio, non voleva dare troppo peso a suo padre, che aveva già i suoi problemi, poi aveva solo dieci anni, che ne sapeva lei della vita?

L’anonimo paesino a sud dell’Inghilterra era la prossima tappa nel viaggio continuo della piccola famiglia, e anche la più attesa, era il luogo di nascita della mamma, l’unico posto che collegava Catherine a le, l’unico posto che sapeva di lei, dove aveva lasciato la sua impronta evidente, la sua traccia. Adeline, la madre, era morta quando la bimba aveva solo cinque anni, ma nonostante tutto aveva lasciato un grande solco nel cuore di Catherine, un solco impossibile da riempire. Purtroppo anche il padre, Raymond, che tutti chiamavano Ray, sentiva la sua mancanza, ma nonostante tutto cercava di impegnarsi per dare a sua figlia tutto ciò di cui aveva bisogno, nonostante non avesse mai avuto un posto che poteva realmente chiamare casa.

“Fidati, quest’anno sarà diverso”. La voce di Ray era rassicurante e faceva anche credere che ciò che diceva fosse vero, ma, per quanto Catherine si fidasse di suo padre, aveva iniziato a trovare monotonia in quelle parole, ripetute in ogni città dove si fermavano. La piccola aveva compreso da tempo che quelle parole servivano solo a dare conforto e a convincerla a farsi degli amici.

Non era mai stata brava in quello, non sapeva per quale motivo non piacesse agli altri bambini, il suo aspetto era completamente normale, ricciolini biondi le coprivano la testa e un manto di lentiggini le costellava le guance, che quando si aprivano per lasciar spazio ad un sorriso facevano notare la finestrella tra i denti, che le dava un’aria disordinata. Forse non era completamente normale, ma neanche così` spaventosa, la diffidenza degli altri bambini nei suoi compagni dipendeva probabilmente dalla sua vita  dal suo essere nomade, ma per quello non poteva farci niente.

La scuola, quella sì che faceva paura, lei aveva sempre adorato imparare, ma in quella sua ultima tappa   le faceva proprio passare la voglia, l’edificio scolastico era scuro e cupo, pieno di crepe sulla facciata e con finestre sporche, il cortile era cosparso di erba strappata e calpestata e di cespugli spinosi, era una scuola pubblica, ma questo non giustificava la sua condizione, le altre scuole pubbliche erano perlomeno dignitose, quella faceva drizzare i capelli per aria.

Appena entrata sentì un forte odore di muffa che le riempì le narici, la sua classe era piena di ragazzi alti, magri e dai capelli rossicci, che facevano contrasto con il colore delle pareti scure, erano simili a sua madre e l’esatto contrario di lei, una meraviglia! Ci volle poco prima che tutta la scuola sapesse della sua situazione, dopo la prima ora di lezione già aveva sentito i primi commentini e durante l’intervallo dei buffoni avevano cominciato a lanciarle palline di carta addosso, seguite dall’urlo “Zingara!!!”. Il pranzo arrivò in fretta e, avendo già capito come sarebbero andate le cose con gli altri studenti, si affrettò a mangiare e poi corse in cortile per godersi un po’ la pace, nonostante sapesse che sarebbe stata accompagnata dalle urla dei corvi che avevano costruito il nido sugli alberi lì vicino.

Scoprì solo in quel momento, nel piccolo giardino trasandato dietro la scuola, di non essere l’unica anomala, un giovane, apparentemente della sua età, era seduto per terra, intento a mangiare un panino, mentre altri ragazzi si divertivano a lanciargli avanzi del loro pranzo ridacchiando insulti sconvenienti da riportare. Il bambino era una creatura magrissima, tanto da far vedere quasi completamente lo scheletro, coperto da un sottile velo di pelle quasi bianca, le dita lunghe e ossute forzavano debolmente  i polpastrelli nel pane, fissato da due occhi di un nero catrame, incastonati in un viso scavato, con palpebre infossate e zigomi profondi, che gli davano un aspetto inquietante, il tutto coperto da un’aureola di  capelli neri e unti.

Sembrava preso da un racconto horror, e, non sapeva come mai, le era venuto l’impulso di difenderlo, forse perchè era come lei, o forse perchè le faceva solo pietà, fatto sta che prese un sassolino stretto nelle mani grassottelle e lo lanciò addosso agli aggressori, urlando: ” Lasciatelo in pace, mostri!!!”. Il bambino a lato si lasciò sfuggire un debole “grazie” dalle labbra sottili,  ma Catherine non fece in tempo a sentirlo perchè era già scappata dietro un muro, e mentre riprendeva fiato si rese conto di cosa aveva appena fatto e di quanto coraggio aveva avuto, si sentiva fiera di sè.

La sera, tornata alla sua roulotte, si appoggiò al letto e chiuse gli occhi, nella speranza di vedere la mamma, come al solito. Le capitava quasi tutte le notti, vedeva i suoi capelli rossi, il suo sorriso esile e pieno di vitalità, i suoi grandi occhi verdi come due smeraldi, e le sue guance cosparse di lentiggini, l’unica cosa che aveva e che avrebbe mai avuto in comune con lei.

Si lasciò sprofondare lentamente nel sonno, ma dopo due ore di buio quello che vide non era la figura snella e alta tanto attesa, era qualcosa di più lontano nella sua mente, qualcosa di piccolo e retto, con sfumature tra il bianco e il nero, neanche un colore. Si svegliò di soprassalto, con i brividi di freddo che le correvano lungo la schiena e il respiro pesante, si affannò a gattonare fino a un tavolino al centro della roulotte e ad afferrare un taccuino e una vecchia matita; poi tornò nel letto, e , dopo aver preso un forte respiro prese a disegnare tutto ciò che ricordava della strana figura, senza tralasciare un minimo dettaglio, accanto ai tanti ritratti variopinti della madre, dopo molte linee e cancellature si rese conto che quei lineamenti incavati le ricordavano qualcosa, qualcosa di già visto, qualcuno di impresso nella memoria…

Il bambino, quel bambino…, come si era azzardato quel personaggio insignificante a infiltrarsi nei suoi sogni senza nemmeno bussare? Come era riuscito a destabilizzare tutti i suoi equilibri solo mostrandosi a lei? Una cosa era certa: domani gli avrebbe parlato.

E cosi fu, “Io sono Chaterine, e tu?”. Si era presentata nel cortile il giorno dopo. L’innocente creaturina, da sotto, la guardò con occhi stralunati per poi risponderle con un flebile “Io sono Viktor”. Quel nome impose un sorriso nel volto della bambina e si accorse che forse non era stata una cattiva idea parlare con quella specie di creatura degli incubi.

I giorni passavano e i due giovani continuavano a incontrarsi in cortile, fuori scuola e nei boschetti vicino, spesso a discutere del più` e del meno e, a volte, a raccontarsi storie a vicenda. Catherine si era sentita stranamente più accesa di giorno in giorno, come se avesse finalmente trovato una casa dove il suo cuore avrebbe potuto riposare, trovava tranquillità nei lineamenti incavati di Viktor, e nei suoi passi dinoccolati, che quasi non lasciavano impronta sul terreno umido dei boschetti, ed era sicura che il sentimento era ricambiato. Non sarebbe più voluta andare via, ora il solco nel suo cuore era riempito dall’amicizia, e se avesse lasciato Viktor, un’altra parte di lei sarebbe rimasta sepolta li, se non il cuore intero.

Era una piovosa mattina di maggio quando Viktor le sembrò più cupo del solito ” Qualcosa non va?”. Domandò lei, con voce dolce e gentile. “Non è ancora il momento per parlartene, quando sarà il momento lo faro, tu intanto non preoccuparti”. Le regalò un raro sorriso, lasciando intravedere la dentatura bianca. Lei non insistette, la loro relazione era fatta anche di silenzi e lei aveva imparato ad interpretarli.

Quella stessa sera, in una casa alta, cupa e piena di vetrate nere, Viktor e suo padre stavano avendo una conversazione, una conversazione che Catherine non avrebbe potuto ascoltare, che avrebbe reso tutto più difficile.

” Signore…”, iniziò`Viktor, con il viso basso nella penombra, accanto a una figura seduta sulla seggiola di un vecchio pianoforte nero a coda. ” Ti prego, Viktor, chiamami padre, per una volta dai una soddisfazione a questo vecchio prima di andartene”, rispose l’uomo, con una voce triste e compassionevole, Viktor prese un respiro profondo e, dopo aver annuito, ricominciò. “Padre, lei… cosa ha intenzione di fare?”, domandò. C’era amarezza in quelle parole, ma anche un briciolo di speranza. “Viktor, piccolo mio, credo che tu debba tornare indietro, hai fatto per troppo tempo i comodi di questo scrittore arrugginito e le persone cominciano a fare domande sulla tua provenienza, non c’è altra soluzione…”.

Dopo quella sentenza cadde il silenzio. “Perchè? “. Quella domanda riecheggiò nella stanza, non si era mai permesso di rispondere, non perchè sarebbe stato punito, ma perchè non lo aveva mai trovato necessario, ma in quel momento sì, era necessaria qualsiasi cosa che potesse salvare la bellissima realtà in cui aveva vissuto gli ultimi mesi. L’uomo non si scompose, anzi, si mise comodo e si schiarì la gola. “Sai, piccolo, mi dispiace, ho messo i miei desideri davanti ai tuoi, ho sempre desiderato avere un figlio e, quando già in questo castello solitario avevo scritto la storia horror che parlava di te, mi ero sentito così felice e pieno, la leggevo quasi tutte le notti, e pian piano la solitudine in questo palazzo sembrò dilatarsi tanto da assorbirmi completamente. Così in un atto di disperazione ti ho fatto uscire da queste pagine” Mentre parlava alzò un vecchio tomo impolverato e ingiallito. ” Per poter avere finalmente il figlio che avevo sempre desiderato, ma mi sono accorto dell’errore che ho fatto, ti ho lasciato camminare nelle vesti di qualcuno che non eri e sulla terra di un mondo che non ti appartiene, sicuramente di questo hai sofferto e io sono stato cieco di fronte a ciò”. Però di nuovo, come un singhiozzo una voce flebile si alzò: “Io voglio rimanere qui!”. La voce fu interrotta dai singhiozzi e una lacrima illuminata dalla luna scivolò sulla guancia bianca di Viktor. “Io ho incontrato qua una persona che mi fa sentire adatto,…vivo!!” , urlò. “Come la mia natura non mi dovrebbe permettere di essere!!! Questo mondo mi sta a pennello, se c’è lei a farmelo indossare, qualsiasi mondo mi si adatta, accanto a lei!!! Quelle parole di inchiostro mi stanno strette da molto, e quella rilegatura di corda mi stringe solo il respiro!!!”. Cadde sulle ginocchia, distrutto, e l’uomo rispose, con la voce macchiata dal senso di colpa, ” Ti ho fatto assaggiare ciò che non potrai mai avere, è colpa mia, e ora tocca a me rimediare, mi dispiace”.  E il piccolo, rassegnato: ” Informerò lei domani mattina, dopodichè potrò andare”. Finì con una voce robotica, ormai vuota di speranza.

Il giorno dopo, il14 Maggio 1998, Catherine stava aspettando Viktor nel bosco, pioveva, e lei si lasciava bagnare e punzecchiare dalle gocce, qualcosa stava per accadere e lei lo sapeva; Viktor arrivò e alzò lo sguardo su di lei. Come faceva male il pensiero di non poter più vedere quegli azzurri occhi gioiosi, accompagnati da quelle guance rosate, lei però ora voleva parole, non silenzi, “Me ne andrò”, buttò fuori lui. Catherine si portò le mani alla bocca, mentre le lacrime accompagnavano le gocce di pioggia nella loro discesa. “Dovrò tornare da dove sono venuto, da qui”, bisbigliò lui , indicando un libro nascosto nel lembo della giacca. “So che non capisci ora, ma leggi di me, ricordami, e io ci sarò sempre. Fidati, là dentro mi sentirò più zingaro di quanto tu ti sia mai sentita in tutta la tua vita”, le bisbigliò facendole scivolare il libro tra le mani e stampandole un bacio sulla fronte. Le dita ossute le accarezzavano la guancia. E poi scappò. Catherine rimase lì, confusa, persa e più lontana da casa di quanto si fosse mai sentita prima.

Il destino, però, è destino, e questo destino ha scritto che questi due bambini avrebbero ritrovato la loro casa e non sarebbero stati soli, sarebbero stati uniti da un filo invisibile a distanza di universi, uno chiuso tra le pagine di un libro e l’altra tra le pareti di una roulotte. E ancora oggi li puoi sentire ridere nel bosco, ogni 14 maggio, come se niente fosse mai cambiato.

Casa è dove riposa il cuore e in questo caso il loro cuore riposa nel petto dell’altro.

Spero che il racconto vi sia piaciuto, Grazie per aver dedicato del tempo alla lettura di questo articolo.

Arianna Terranova 3B

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.